Il valore probatorio delle e-mail “semplici”. Ultime dalla Cassazione

Con la recente ordinanza del 18 settembre 2024 n. 25131, la Suprema Corte ha fatto chiarezza sull’utilizzabilità ai fini probatori delle comunicazioni di posta elettronica non certificate, quindi prive di sottoscrizione “qualificata”.

Nel caso di specie, il ricorrente (amministratore di una società) conveniva in giudizio il proprio commercialista lamentando la mancata tempestiva comunicazione, da parte di quest’ultimo, dell’esito negativo di un ricorso proposto dinanzi la competente commissione tributaria regionale, ciò che aveva precluso la possibilità di presentare ricorso per cassazione.

Il resistente, da parte sua, depositava nel giudizio instaurato presso il Tribunale una scrittura firmata dal ricorrente ed una e-mail attestanti il proprio adempimento riguardo agli obblighi di informazione nei confronti della controparte; il Giudice di prime cure rigettava la domanda risarcitoria avanzata.

Anche la Corte di Appello, adita dal soccombente, si pronunciava per il rigetto.

Successivamente, dinanzi alla Corte di Cassazione, il ricorrente invocava l’inversione dell’onere della prova sostenendo che, avendo disconosciuto più volte la comunicazione e-mail indirizzatagli, “… la stessa avrebbe perso ogni valenza probatoria, non essendo la controparte riuscita a provare di averla effettivamente inoltrata, per cui sarebbe rimasto sfornito di prova l’adempimento degli obblighi professionali di informazione e sollecitazione da parte del professionista”.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso complessivamente infondato.

Infatti, il Collegio ha ribadito che “… in merito al valore da attribuire alle comunicazioni inviate mediante posta elettronica semplice, i principi desumibili dalla legge sono pochi e semplici, e possono così riassumersi: (a) il messaggio di posta elettronica sottoscritto con firma “semplice” è un documento informatico ai sensi dell’art. 2712 c.c.; (b) se non ne sono contestati la provenienza od il contenuto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate; c) se ne sono contestati la provenienza od il contenuto, il giudice non può espungere quel documento dal novero delle prove utilizzabili, ma deve valutarlo in una con tutti gli altri elementi disponibili e tenendo conto delle sue caratteristiche intrinseche di sicurezza, integrità, immodificabilità”.

Tanto chiarito, la Corte ha altresì sottolineato che il titolare di un indirizzo e-mail ne è responsabile, in quanto “… deve controllare che la ricezione della posta non sia bloccata e che i messaggi non siano finiti nella spam, rimanendo nella sua responsabilità la mancata conoscenza di un messaggio che gli sia stato regolarmente inviato e del quale non abbia preso conoscenza per il malfunzionamento della sua casella di posta elettronica o perché finito nella spam”.

In altri termini, si richiede a chi riceve messaggi di posta elettronica correttamente indirizzati di tenere un comportamento attivo e vigile, non essendo sufficiente limitarsi a negare di aver ricevuto alcunché, proprio in considerazione delle caratteristiche intrinseche a tale modalità di trasmissione, ricordate con chiarezza e semplicità dal Giudice di legittimità.

Responsabilità sanitaria: il rispetto delle linee guida è comunque subordinato alla applicabilità in concreto

Con ordinanza dell’11 dicembre 2023, la III Sezione civile della Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione su un importante aspetto relativo all’applicazione delle linee guida in materia sanitaria.

Il caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di merito, consistente nell’aver eseguito un intervento chirurgico particolarmente invasivo, per di più in modo inesatto, preferendolo ad una tipologia di più recente applicazione ma dimostratasi più efficace, aveva portato a formulare due valutazioni di colpa nei confronti del medico specialista: un primo profilo attinente ad imprudenza, un secondo ad imperizia.

Chiamata a pronunciarsi, la Suprema Corte ha ricordato che: “nell’ipotesi d’imprudenza non è applicabile l’articolo 2236 c.c., e la limitazione della responsabilità alla colpa grave non opera …”; inoltre, nel caso di specie “… quanto alla mancata adozione della tecnica a quel tempo non ancora recepita dalle linee guida, questa sì opzione in tesi imperita, deve ricordarsi che questa Corte ha ripetutamente escluso sia una rilevanza normativa delle linee in parola, sebbene siano un parametro di accertamento della colpa medica sia, soprattutto, una generale rilevanza “parascriminante” delle stesse che non assurgono al rango di fonti di regole cautelari codificate, non essendo ne’ tassative ne’ vincolanti …”.

In ogni caso, esse non possono mai prevalere    “… sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la miglior soluzione per il paziente” (sottolineatura aggiunta).

Ricorda infine la Corte come “… il giudice delle leggi, con la sentenza n. 295 del 2013, abbia chiaramente specificato che la limitazione di responsabilità ex articolo 3, comma 1 della cd. Legge Balduzzi (nel perimetro indicato) trovi il suo invalicabile limite nell’addebito di imperizia – giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia – e non anche quando l’esercente la professione sanitaria si sia reso responsabile di una condotta negligente e/o imprudente” (Cass., 09/05/2017, n. 11208).

In definitiva, deve ribadirsi come, soprattutto in una materia così delicata come quella avente ad oggetto la salute (quando non la vita stessa), il paziente debba essere il “soggetto” a cui prestare le cure più adeguate e non l’oggetto da “inquadrare” in parametri asetticamente individuati.

Infezioni nosocomiali e risarcimento del danno: il Tribunale di Roma fa chiarezza in ordine alla responsabilità ed ai relativi oneri probatori

Il Tribunale di Roma, con una recentissima pronuncia dell’11 dicembre 2023 (sent. n.  18155 – Giudice Dott. Cisterna), ha evidenziato con estrema chiarezza i doveri che incombono sulle strutture sanitarie, da un lato, e su chi voglia agire giudizialmente nei confronti delle stesse, dall’altro, per il risarcimento dei danni originati dalle infezioni contratte in occasione di un ricovero.

Richiamata la giurisprudenza di legittimità (Cass. 24 gennaio 2023 n. 2042), il Giudice rileva che “Il precipitato di questo principio al caso di specie si concretizza nell’onere per il paziente di provare la contrazione dell’infezione in ambiente ospedaliero secondo i consueti parametri del criterio temporale, topografico e clinico, mentre è onere della struttura dimostrare l’inevitabilità (la prevedibilità è data come scontata secondo una certa frequenza statistica) del contagio o la sua provenienza allogena per una precedente colonizzazione del paziente stesso. Laddove, invece, ad agire siano iure proprio – come nel caso di specie – i conviventi del paziente l’intero onere probatorio ex art. 2043 Cc si trasferisce sugli attori i quale devono allegare la prova della condotta colpevole, del nesso causale e della correlazione eventistica”*.

In particolare, il fatto che “i temi probatori della responsabilità contrattuale (art.7, comma 1, Legge 24 del 2017) ed extracontrattuale (art. 2043 Cc) tendano in concreto a convergere non altera i connotati propri di quest’ultima (si pensi alla prescrizione quinquennale) e non esonera gli attori dalla dimostrazione della derivazione causale del danno da una condotta colpevole della Struttura (quantunque pericolosa) tenendo presente che la causalità va correlata non esclusivamente alla determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa), ma anche all’ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica)…”*.

L’inevitabile conclusione è la seguente: “Quanto alla domanda per responsabilità extracontrattuale (Cass. 9 luglio 2020, n.14615) proveniente da tutti gli attori secondo i dedotti rapporti di parentale e il vincolo di coniugio, la stessa deve essere rigettata”. Nel solco delle precedenti pronunce del Tribunale di Roma, infatti, “Il ragionamento (conforme a quello della citata ordinanza del 21.9.2021) è semplice: la circostanza che la Struttura non abbia prodotto la prova del corretto adempimento delle proprie obbligazioni di sicurezza sanitaria non equivale a ritenere, nel versante della responsabilità extracontrattuale, che sia stata allegata e prodotta la prova della condotta colpevole della medesima Struttura con riferimento al periodo di insorgenza dell’ICA”*.

Tutto ciò, non senza aver evidenziato i precisi, stringenti obblighi a cui le strutture sanitarie devono conformarsi affinché il proprio operato sia esente da censure: “Ciò che è quindi esigibile non è la registrazione pedissequa e ossessiva delle azioni di tutto il personale sanitario, ma la documentazione pragmatica delle attività svolte sul campo e i risultati di auspicata implementazione ottenuti. La struttura sanitaria, in rapporto alla gestione dei pazienti e del loro ambiente, ha pertanto l’obbligo di attuare la prevenzione e il controllo delle infezioni nosocomiali, adeguandosi alle più moderne regole di igiene del tempo, cioè: 1. verificare l’applicazione delle linee guida attraverso operatori seriamente formati, 2. applicare equilibrati sistemi di controllo dei risultati, 3. attuare un intervento attivo e tempestivo di stewardship antimicrobica delle ICA. Le procedure ed i Protocolli hanno lo scopo di fissare precise regole e individuare le responsabilità organizzative”. Tale esigenza, tuttavia,  “… non può certo prevedere la obbligazione del risultato di assoluta sterilità ambientale raggiunta nell’Ospedale ovunque e comunque …”*.

In definitiva, coloro che agiscono per ottenere un risarcimento iure proprio possono (e devono) attivarsi per l’ottenimento delle prove: “Era onere degli attori iure proprio allegare e dimostrare le circostanze di cui si discute attivandosi per l’ammissione di mezzi di prova (finanche ex art. 210 Cpc in direzione dei casi di infezione nel medesimo reparto, della dimostrazione delle attività di sanificazione ect.) che potessero dar prova, persino presuntiva, del mancato rispetto degli obblighi di cui si discute. Il fallimento della prova liberatoria, sul versante dell’inadempimento contrattuale, non equivale a ritenere soddisfatto l’onere probatorio su quello extracontrattuale”*.

In considerazione dell’elevatissimo numero di giudizi aventi ad oggetto le conseguenze di infezioni contratte in ambiente ospedaliero (che, si ricordi, sono prevedibili ma non sono comunque prevenibili al 100%), non può non apprezzarsi la puntuale ricostruzione operata dalla pronuncia in oggetto sullo “stato dell’arte” in materia.

* sottolineatura aggiunta

Arricchimento senza causa: Ultime dalle Sezioni Unite

Con la recentissima sentenza n.33954 depositata il 5 dicembre 2023 le Sezioni Unite chiariscono concretamente quando tale azione possa essere effettivamente proposta, senza rischiarne il rigetto.

Rammentato infatti come ai sensi dell’art.2042 c.c. l’azione di arricchimento abbia carattere sussidiario, regola che ne ammette generalmente la proposizione nel caso in cui l’impoverito non disponga di altre azioni, le Sezioni Unite svolgono con la pronunzia sopra richiamata una essenziale precisazione per affermare che: “ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà, posto dall’art. 2042 c.c., “la domanda di arricchimento è proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo”. La Cassazione, con tale decisione, progredisce decisamente rispetto alla precedente pronunzia del 2017 (Cass. civ., Sez. I, sentenza 22.11.2017, n.27827)  in cui si statuiva che: il presupposto per proporre l’azione di ingiustificato arricchimento, fosse “la mancanza di un’azione tipica, intesa esclusivamente come quella che deriva da un contratto ovvero quella che sia prevista dalla legge con riferimento ad una fattispecie determinata e non ogni iniziativa processuale ipoteticamente esperibile”(idem).

Nel caso deciso dalle Sezioni Unite la Corte d’Appello di Trieste aveva dichiarato inammissibile, per carenza di residualità, la domanda di arricchimento senza causa svolta da una S.r.l. verso un Comune, domanda spiegata sulla duplice risultanza di lavori eseguiti sul terreno di proprietà della Società (interramento di cavi in alta tensione) e mancato riconoscimento della edificabilità del predetto terreno da parte dello stesso Comune. La Suprema Corte individuava quindi nella decisione della Corte di Appello “una applicazione acritica del principio di sussidiarietà”, per avere, in altri termini, semplicemente affermato che il Tribunale di primo grado aveva respinto la domanda di responsabilità precontrattuale del Comune, non essendo stata fornita una prova idonea al riguardo, rilevando inoltre la mancata evidenza di un impegno assunto dal Comune a mutare la destinazione dei terreni di proprietà della ricorrente. Motivando quindi il rigetto sostenendo la carenza della prova circa la violazione dell’obbligo di buona fede da parte del Comune, il che però equivale ad un rigetto riferito all’accertamento dell’insussistenza del titolo fondante la domanda ex articolo 1337 c.c. Conseguendo, evidentemente, come nella fattispecie fosse appunto proponibile la domanda di arricchimento senza causa.

Va inoltre rappresentato come, coerentemente con l’assunto di base riconosciuto nella pronuncia, le Sezioni Unite chiariscono la preclusione dell’esercizio dell’azione di arricchimento qualora l’azione da svolgere in via principale non sia più proponibile per una causa afferente al comportamento dell’impoverito, quindi, l’esempio riguarda ai casi di maggior tipicità, sussistendo situazioni di prescrizione o decadenza dell’azione principali. Debbono in altri termini distinguersi le ipotesi in cui il rigetto derivi dal riconoscimento della carenza ab origine dei presupposti fondanti la domanda principale, dai casi in cui il rigetto sia motivato dall’inerzia dell’impoverito ovvero dal mancato assolvimento di qualche onere cui la legge ricollegava la difesa di un proprio interesse.

Così infatti stabilisce la sentenza qui sinteticamente analizzata: “Se la domanda principale è correlata ad una pretesa scaturente da un contratto, di cui si lamenta l’esecuzione in maniera difforme da quanto pattuito, chiedendosi il ristoro del pregiudizio subito e si accerta che il contratto era affetto da nullità’, lo spostamento contrattuale si palesa privo di una giusta causa e legittima quindi la proposizione, anche in via subordinata nel medesimo giudizio, dell’azione di arricchimento. Se viceversa, incontestata o dimostrata l’esistenza del contratto, il rigetto sia derivato dalla mancata prova da parte del contraente del danno derivante dall’altrui condotta inadempiente, la domanda di arricchimento resta preclusa in ragione della clausola di cui all’articolo 2042 c.c.”. Concludendosi quindi con l’affermazione del seguente principio di diritto:

Va quindi affermato il seguente principio di diritto: “Ai fini della verifica del rispetto della regola di sussidiarietà’ di cui all’articolo 2042 c.c., la domanda di arricchimento e’ proponibile ove la diversa azione, fondata sul contratto, su legge ovvero su clausole generali, si riveli carente ab origine del titolo giustificativo. Viceversa, resta preclusa nel caso in cui il rigetto della domanda alternativa derivi da prescrizione o decadenza del diritto azionato, ovvero nel caso in cui discenda dalla carenza di prova circa l’esistenza del pregiudizio subito, ovvero in caso di nullità del titolo contrattuale, ove la nullità derivi dall’illiceità del contratto per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico”.

 

Compromissione del rapporto parentale: per il danno ai familiari devono utilizzarsi le tabelle del Tribunale di Roma

Con ordinanza n. 13540/2023, la Corte di Cassazione si schiera esplicitamente a favore dell’utilizzo delle tabelle elaborate dal Tribunale di Roma con riguardo al riconoscimento ed alla liquidazione del danno “… che subiscono i congiunti inconseguenza delle lesioni … subite dalla vittima principale,tali da recare dolore e pena ai parenti, e da incidere pesantemente sullo svolgimento della vita quotidiana della intera famiglia”.

Dopo aver premesso che ai parenti prossimi di una vittima di lesioni personali può essere riconosciuto anche il risarcimento del danno non patrimoniale (accertato in concreto) da lesione del rapporto parentale, correlato ad una particolare situazione affettiva, la Corte ricorda che “… traducendosi il danno in un patema d’animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto, esso non è accertabile con metodi scientifici e può essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità”.

In particolare, sottolineano i Giudici, “… il danno “iure proprio” subito dai congiunti della vittima non è limitato al solo totale sconvolgimento delle loro abitudini di vita, potendo anche consistere in un patimento d’animo o in una perdita vera e propria di salute. Tali pregiudizi possono essere dimostrati per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto”. Per di più, non è dato rinvenire alcuna limitazione dal punto di vista normativo in materia di danno da lesione del rapporto parentale, “… nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati”.

Pertanto, il giudice del merito “… dovrà far riferimento a tabelle che prevedano specificamente idonee modalità di quantificazione del danno, come le tabelle predisposte dal Tribunale di Roma, che fin dal 2019 contengono un quadro dedicato alla liquidazione dei danni cd. riflessi subiti dai congiunti della vittima primaria in caso di lesioni. Le tabelle del Tribunale di Milano,che nella loro più recente versione si sono adeguate alle indicazioni di questa Corte prevedendo una liquidazione “a punti” in riferimento alla liquidazione del danno non patrimoniale derivante da perdita del rapporto parentale, non altrettanto hanno fatto, allo stato, in riferimento alla liquidazione del danno dei congiunti del macroleso …”.

In tal modo, è sperabile, dovrebbero essere superate le distonie registratesi in relazione ai criteri di calcolo adottati dai vari Tribunali, con le relative (ingiustificate) sperequazioni a fronte di situazioni assolutamente sovrapponibili.

NFT in vendita: anche le nuove tecnologie non possono prescindere dal rispetto delle norme sulla titolarità dei marchi

L’ordinanza emessa dal Tribunale di Roma il 20 luglio 2022 (Giudice Landi) costituisce un vero e proprio monito per chiunque commercializzi beni “virtuali” e perciò ritenga, in qualche modo, di potersi sottrarre all’osservanza di norme e regolamenti.

La ricorrente Juventus contestava alla resistente Blockeras S.r.l. una “… condotta di contraffazione del marchio e di concorrenza sleale consistita nell’uso non autorizzato dei suddetti marchi denominativi o figurativi tramite la produzione, commercializzazione e promozione on line delle carte da gioco digitali NFT (“non fungibile token”), in quanto riportanti la figura dell’ex giocatore Christian (Bobo) Vieri con la maglia della Juventus e l’indicazione della squadra”.

La Blockeras eccepiva, oltre al proprio diritto di utilizzare e porre in vendita le medesime cards virtuali, che “… i marchi  oggetto di tutela non risultavano registrati nella categoria inerente i prodotti virtuali downloadabili”.

La questione, all’apparenza implicante connotati di novità in ambito commerciale, è stata affrontata dal Tribunale facendo uso di principi giuridici consolidati.

Assodate la titolarità e la notorietà dei marchi oggetto della vicenda, il Giudicante, rilevata l’entità non indifferente degli scambi (comprendendo anche le successive transazioni sul mercato dell’usato, per così dire, da cui la Blockeras ricavava un’ulteriore introito) ha accertato che “a prescindere dalle caratteristiche telematiche delle Cards in questione, la società resistente, con la creazione di dette Cards e la loro commercializzazione, oltre ad utilizzare l’immagine del giocatore Bobo Vieri nei limiti del contratto di utilizzazione dell’immagine stipulato con la società che ne gestisce i diritti di immagine, ha utilizzato senza autorizzazione anche i marchi della società Juventus”. Né la condotta della resistente poteva rientrare nell’ambito dell’art. 97 della legge sul diritto d’autore (interesse alla pubblicazione per scopi didattici o scientifici, o di pubblica informazione), in quanto “… come emerge dagli atti e dalla stessa presentazione del progetto operato dalla parte resistente, l’operazione delle creazioni e vendita di dette Cards ha esclusivi fini commerciali”.

Inoltre, “la circostanza che Bobo Vieri abbia effettivamente giocato nella Juventus e che questi abbia concesso l’autorizzazione all’utilizzo della propria immagine tramite la creazione di Cards che riproducevano il giocatore con le diverse maglie delle squadre in cui ha giocato non escludono, quindi, la necessità di chiedere l’autorizzazione dell’utilizzo dei marchi registrati inerenti le squadre di cui sono riprodotte le maglie e la denominazione, in quanto si tratta di beni destinati alla vendita commerciale, in relazione alle quali anche la fama delle diverse squadre in cui il calciatore ha giocato contribuiscono a dare valore all’immagine digitale da acquistare”.

D’altra parte anche la Juventus, in collaborazione con altra società, ha fatto il suo ingresso “… nel settore dei crypto game, o blockchain game, ossia videogiochi online che si basano su tecnologie blockchain e sull’utilizzo di criptovalute e/o di non fungible tokens (NFT)”.

Dunque, alla luce delle prescrizioni di legge in materia, il Tribunale non poteva che pronunciarsi a favore della ricorrente, rilevando come: a) le condotte della Blockeras configurino “… una contraffazione dei marchi in oggetto concretizzando il rischio di confusione, determinato dalla identità dei segni utilizzati tale da poter indurre in errore il pubblico circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra la società resistente e la società Juventus titolare del marchio”; b) “operando la società Juventus anche nel settore commerciale in parola ed essendo i marchi in questione registrati per categorie ricomprendenti anche detto tipo di attività, la condotta della società resistente integri anche una ipotesi di concorrenza sleale in conseguenza dell’uso non autorizzato di marchi altrui (funzione distintiva del marchio) e dell’appropriazione dei pregi collegati ai marchi utilizzati (funzione attrattiva del marchio); c) infine, tali comportamenti “… arrechino un pericolo di danno sia in relazione alla possibile volgarizzazione del marchio che in relazione alla lesione dei diritti di sfruttamento del marchio medesimo, provocando un danno con obbiettive difficoltà di quantificazione”.

Ad ulteriore precisazione, il Giudicante rammenta che “… in materia di proprietà industriale, il pericolo consiste in ogni rischio di pregiudizio, anche meramente patrimoniale, che sia suscettibile di espansione o non agevolmente quantificabile e che detto pericolo non dipende dal numero di prodotti commercializzati o dall’interruzione della vendita degli stessi, potendo detta attività di commercializzazione riprendere ed aumentare”.

Pertanto, è stato fatto divieto alla ricorrente di proseguire nella commercializzazione dei suddetti beni digitali, disponendosi altresì una penale per ogni giorno di ritardo nell’adempiere.

Responsabilità sanitaria e giudizio penale: non sono esclusi effetti anche sul procedimento in sede civile

Con la sentenza n. 26811/2022, emessa in data 8 giugno e pubblicata il 12 settembre, la III Sezione della Suprema Corte ha in qualche modo innovato, in materia di responsabilità civile sanitaria, il principio secondo cui la sentenza emessa in un procedimento penale non incide sulla possibilità per il danneggiato di ottenere successivamente il risarcimento dei danni dinanzi al giudice civile.

Nel caso di specie, in appello una ASL era stata dichiarata tenuta al pagamento di somme a favore della vedova di un paziente deceduto in ospedale; i medici erano stati assolti con formula piena (insussistenza del fatto) in sede penale, mentre l’Azienda Sanitaria, citata per il risarcimento dei danni in quanto solidalmente responsabile, si era vista condannare a versare l’importo di Euro 180.000,00.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale finora pressoché pacifico, applicato dalla Corte territoriale, il giudicato penale si ripercuote in senso preclusivo sul giudizio civile solo qualora si svolga tra le medesime parti e, comunque, in quest’ultimo i concetti di colpa e causalità del nesso devono considerarsi in maniera differente: quindi il giudice è libero, muovendo dagli elementi già accertati nel processo penale, di giungere a conclusioni del tutto diverse in quanto ai profili di responsabilità.

La Corte di Cassazione, al contrario, ha ritenuto di discostarsi da tale ragionamento.

Muovendo da quanto stabilito nell’art. 1306 c.c. (solidarietà passiva), i giudici hanno concentrato infatti l’attenzione sul concetto di opponibilità del giudicato nei rapporti fra creditore e debitori solidali, giungendo ad elaborare il seguente principio di diritto: <<Nella controversia civile di responsabilità sanitaria, promossa dal danneggiato al fine di ottenere la condanna della struttura sanitaria al risarcimento dei danni, a titolo di responsabilità contrattuale esclusivamente fondata sull’art. 1228 c.c. per il fatto colposo dei medici dei quali si sia avvalsa nell’adempimento della propria obbligazione di cura, la sentenza – pronunciata all’esito di dibattimento nel processo penale al quale abbia partecipato (o sia stata messo in condizione di parteciparvi) soltanto il danneggiato come parte civile e divenuta irrevocabile – che abbia assolto i medici con la formula “perché il fatto non sussiste”, in forza di accertamento effettivo sulla insussistenza del nesso causale tra la condotta degli stessi sanitari e l’evento iatrogeno in danno del paziente in relazione ai medesimi fatti oggetto del giudizio civile di danno, esplica, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., piena efficacia di giudicato ostativo di un diverso accertamento di quegli stessi fatti ed è opponibile, ai sensi dell’art. 1306, secondo comma, c.c., dalla convenuta struttura sanitaria, debitrice solidale con i medici assolti in sede penale, all’attore danneggiato, ove l’eccezione sia stata tempestivamente sollevata in primo grado e successivamente coltivata>> (sottolineatura aggiunta).

Si ritiene estremamente rilevante il punto di diritto recentissimamente dichiarato dalla Suprema Corte nell’ambito dei procedimenti di responsabilità sanitaria.

Fideiussioni omnibus e nullità: le Sezioni Unite superano le divergenze dottrinarie e giurisprudenziali

Con la sentenza n. 41994 del 30 dicembre 2021, la Suprema Corte di Cassazione ha messo fine ad una vicenda che negli anni ha creato non poche difficoltà sia in dottrina che, ancor più, in giurisprudenza.

La questione è ampiamente nota: nel 2003, ad opera dell’Associazione Bancaria Italiana, venne predisposto in materia di fideiussione uno schema contrattuale contenente tuttavia clausole ritenute successivamente, dalla Banca d’Italia e dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, contrastare con la Legge 287/1990 (c.d. normativa antitrust); in particolare, le clausole che riproducevano gli artt. 2, 6, 8 dello schema ABI, qualora utilizzate in modo uniforme dagli Istituti bancari nei rapporti con la clientela, erano da ritenersi nulle in quanto configgenti con l’art. 2, co. 2, della summenzionata legge.

Tale conclusione ha dato vita a ben tre differenti correnti di pensiero, di seguito sintetizzate, con inevitabili effetti sul piano della cd. (in)certezza del diritto: a) il contratto “a monte” (da garantire) e quello “a valle” (la fideiussione) rimangono entità distinte ed indipendenti, prevedendosi quindi per il soggetto danneggiato dalla condotta anticoncorrenziale unicamente la possibilità di una tutela risarcitoria; b) in presenza delle clausole de quibus si verifica tout court la nullità dell’intera fideiussione; c) salomonicamente, attesa l’illiceità delle clausole incriminate, saranno colpite da nullità solamente queste ultime.

La soluzione proposta dalle Sezioni Unite, alla luce delle finalità e della ratio ispiratrice della normativa in discussione, in un’ottica di conservazione degli effetti degli atti giuridici ed avuto riguardo al necessario  contemperamento degli interessi in gioco, va quindi individuata nella previsione di nullità parziale del contratto fideiussorio, conformemente al principio di diritto dettato:  “i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, articolo 2, comma 2, lettera a) e articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’articolo 2, comma 3 della Legge succitata e dell’articolo 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti” (ipotesi, quest’ultima, intuitivamente residuale).

Pertanto la dichiarazione di nullità parziale, ferma restando la validità della fideiussione, lascerà aperta per chi ha prestato la garanzia esclusivamente la possibilità di ricorrere ai rimedi previsti dal codice civile, ovvero “… l’imprescrittibilità dell’azione di nullità … e la proponibilità della domanda di ripetizione dell’indebito ex articolo 2033 c.c., ricorrendone i relativi presupposti … , nonché dell’azione di risarcimento dei danni”. Questi ultimi, tuttavia, dovranno essere riferiti ai pregiudizi sostenuti e provati dal soggetto – fideiussore – derivanti dalle illecite intese anticoncorrenziali sanzionate con la nullità parziale che, nel caso, ha appunto colpito gli artt. 2, 6, 8 dello schema ABI poi ricalcato dai diversi Istituti di credito nella redazione dei relativi schemi di fideiussione. Comprendendosi, quindi, la peculiare rarità di una tale possibile allegazione e dimostrazione.

Rinunzia all’eredità. Attenzione, non è più possibile senza decorso il termine di tre mesi nel caso di possesso di beni del de cuius senza che sia stato compiuto l’inventario.

Con ordinanza n. 36080 del 23 novembre 2021, la Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione sull’art. 485 del Codice civile, con importanti conseguenze in ordine alla possibilità per colui che è chiamato all’eredità di rinunciare all’eredità stessa.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva richiesto ai coeredi il pagamento di oneri tributari non versati dal defunto dante causa. Impugnato il provvedimento, la Commissione Tributaria Provinciale aveva dato ragione ai ricorrenti, rilevando la retroattività della rinuncia effettuata dopo la notifica dell’atto di accertamento; la Commissione Tributaria Regionale aveva respinto l’appello proposto dall’Agenzia (sul presupposto della mancata redazione dell’inventario dei beni ex art. 485 c.c., con conseguente inefficacia della rinuncia), non essendo stato riscontrato il possesso dei beni in capo agli eredi.

La Suprema Corte, al contrario, ha riaffermato il consolidato indirizzo fondato sulla lettera dell’art. 485 c.c.: “il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo è nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. Se entro questo termine lo ha cominciato ma non è stato in grado di completarlo, puo’ ottenere dal tribunale del luogo in cui si è aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non deve eccedere i tre mesi. Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice”.

Inevitabile la conclusione dei Giudici di legittimità: “Se il chiamato che si trovi nel possesso di beni ereditari non compie l’inventario nei termini previsti non può rinunciare all’eredità, ai sensi dell’articolo 519 c.c., in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, dovendo il chiamato, allo scadere dei termini stabiliti per l’inventario, essere considerato erede puro e semplice” (nello stesso senso, Cass. n. 4845/2003), dovendo quindi far fronte anche con il proprio patrimonio ad ogni passività gravante sulla massa ereditaria. Attenzione!

Danno endofamiliare da mancato riconoscimento del figlio e risarcimento: una precisazione in materia di illecito

Con la recentissima ordinanza n. 22496/2021, la I Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione su un aspetto fondamentale dell’illecito civile.

Con riferimento alla richiesta di risarcimento avanzata da una donna la quale asseriva di aver sofferto un danno,  a causa del comportamento tenuto dal padre che “… per anni aveva rifiutato di riconoscere la figlia e di corrisponderle i mezzi di sussistenza”, la Suprema Corte ha ritenuto di dover procedere ad una importante puntualizzazione.

Dato atto della corretta ricostruzione della vicenda effettuata nei precedenti gradi di giudizio, la Corte ribadisce che “… nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore, con disinteresse, protratto nel tempo, del genitore nei confronti del figlio, deve osservarsi che la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole può integrare gli estremi dell’illecito civile …”, dal momento che il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato dai genitori si perfeziona alla nascita del medesimo.

Ciò a condizione che il comportamento del genitore inadempiente presenti le caratteristiche tipiche di un illecito civile, dovendo “essere causalmente determinante, colpevole e cagionare un danno ingiusto”.

Quindi, se da un lato si configura (Cass. 26205/2013) “… un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, che costituisce il fondamento della responsabilità aquiliana da illecito endofamiliare, nell’ipotesi in cui alla procreazione non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore”, dall’altro “… il presupposto di tale responsabilità e del conseguente diritto del figlio al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali è pur sempre costituito dalla consapevolezza del concepimento, che non si identifica con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, ma si compone di una serie di indizi univoci …”.

Nel caso di specie, al contrario, non risultava fornita alcuna prova di tale consapevolezza del concepimento.

Pertanto, la Corte ha ritenuto necessario formulare il seguente principio di diritto:

In tema di danno per mancato riconoscimento di paternità, l’illecito endofamiliare attribuito al padre che abbia generato ma non riconosciuto il figlio, presuppone la consapevolezza della procreazione che, pur non identificandosi con la certezza assoluta derivante esclusivamente dalla prova ematologica, presuppone comunque la maturata conoscenza dell’avvenuta procreazione, non evincibile tuttavia in via automatica dal fatto storico della sola consumazione di rapporti sessuali non protetti con la madre ma anche da altri elementi rilevanti, specificatamente allegati e provati da chi agisce in giudizio”.