Danno morale: ancora oggi può essere oggetto di valutazione separata. La Cassazione all’ennesima variazione sul tema…

Con ordinanza n. 8755 del 29 marzo 2019, la III sezione della Suprema Corte, nonostante il contrastante orientamento delle Sezioni unite ormai ultradecennale, ha affermato la possibilità di risarcire il danno morale pur se non come categoria autonoma di danno ma come “figura descrittiva di un aspetto del danno non patrimoniale”.

I giudici hanno infatti rigettato il ricorso presentato da una compagnia assicuratrice, che lamentava una duplicazione delle voci di danno liquidate in sede di appello, sul presupposto dell’obbligo (attesa la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale), per il giudice di merito, “… di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in peius della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa …”.

Ricordata la necessità di distinguere tra l’aspetto interiore del danno subito e l’aspetto dinamico-relazionale del medesimo, la Suprema Corte stabilisce che “… nella valutazione del danno alla salute, in particolare … il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”) …”, ribadendo altresì che una personalizzazione è possibile soltanto in presenza “… di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali  ed affatto peculiari …”.

Dunque, mentre si ha una duplicazione in caso di riconoscimento di danno biologico congiuntamente al danno esistenziale, “… una differente ed autonoma valutazione va compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute …”.

In sostanza, la liquidazione “… finalisticamente unitaria del danno non patrimoniale … ha pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore … quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche …”.

Si verifica quindi una vera e propria contrapposizione, nella giurisprudenza di legittimità, tra sofferenza “interiore” quale elemento a sé stante oppure quale componente del danno biologico tout court, derivandone una inevitabile incertezza che, in teoria, non avrebbe più avuto ragion d’essere a seguito della pronuncia a Sezioni unite del 2008. Difficile al momento prevedere l’evoluzione e l’incidenza che questa attuale pronunzia potrà avere ma, sicuramente, la stessa si presenta come una prospettiva diversa ed ulteriore rispetto a quanto ormai sembrava completamente e conclusivamente assodato.

 

Quando il bugiardino scagiona produttore e distributore…

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 6587 depositata il 7 marzo 2019*, ha accolto il ricorso presentato da tre case farmaceutiche avverso il provvedimento, emesso dalla Corte d’Appello di Brescia, con cui le stesse erano state condannate a risarcire il paziente che, a seguito dell’utilizzo di un farmaco, aveva contratto una grave malattia.

Nonostante il fatto che nel bugiardino fosse riportata la possibile – benché rarissima –  insorgenza del morbo di Lyell (incidenza pari ad un caso su un milione), il giudice dell’appello aveva condannato le aziende. Secondo il ragionamento della Corte territoriale, qualora non siano noti i fattori scatenanti di una malattia il produttore non può andare esente da responsabilità per il solo fatto di aver segnalato il pericolo nel foglietto illustrativo: tale adempimento non sarebbe sufficiente a soddisfare l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il verificarsi del danno. Si dovrebbe pertanto rinunciare alla produzione e distribuzione del farmaco, oppure accollarsi il rischio economico di un eventuale ed oneroso risarcimento (quasi un principio di responsabilità oggettiva).

Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto di non dover condividere la tesi, dal momento che il tenore dell’art. 2050 c.c. non consente in alcun modo di giungere a siffatta conclusione: perché possa considerarsi soddisfatto l’onere della prova liberatoria, “… è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco …; dall’altro l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato …”; inoltre  la Corte precisa come “ … non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori”.

Attesa la potenziale pericolosità di qualunque farmaco, infatti, deve in ogni caso tenersi presente la funzione sociale connessa all’attività di produzione e vendita di prodotti farmaceutici (con i conseguenti vantaggi per la collettività), a fronte dell’ineludibile obbligo di fornire informazioni complete e continuamente aggiornate per consentire una consapevole scelta da parte del paziente.

  • Corte di Cassazione, Sez.III Civile, 7 marzo 2019

Assegno divorzile e tenore di vita: la Cassazione precisa ulteriormente le condizioni

Con ordinanza n. 4523, depositata il 14 febbraio 2019, la I sezione della Suprema Corte ha apparentemente “riportato in auge” il parametro del tenore di vita, goduto in costanza di matrimonio, da tenere in considerazione al momento di determinare il diritto alla corresponsione di un assegno di mantenimento a favore del coniuge economicamente più debole.

In realtà, muovendo dall’esame di una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Catania, la I sezione ha operato una puntualizzazione quasi “scontata”, proprio alla luce della nota sentenza delle SS.UU. n. 18287/2018.

I giudici catanesi, nel respingere l’appello avverso la decisione di primo grado, confermando il diritto della moglie a ricevere l’assegno divorzile, affermavano che, stante la situazione personale della signora “ … non può dubitarsi del diritto in capo alla (omissis) a godere dell’assegno divorzile, posto che è processualmente certo che la stessa non gode di alcun reddito e ancor meno gode di un reddito adeguato al tenore di vita (molto elevato in ragione delle potenzialità economiche del coniuge) tenuto durante il matrimonio”.

La Cassazione riconosce che la Corte di Appello ha seguito un iter argomentativo in cui il tenore di vita viene preso in considerazione con prudenza, evitando di cadere in forzature e, contestualmente, ha messo in evidenza gli elementi che, nel caso concreto, penalizzano la moglie (non ha svolto attività lavorativa prima del matrimonio, durato 23 anni, né durante; è priva di redditi di altro genere; essendo prossima ai sessant’anni, la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro risulta del tutto remota):   pertanto, “ … gli esiti a cui è pervenuto il decidente del grado appaiono coerenti ed in linea con il più recente pensiero di questa Corte”.

Infatti, la Corte d’Appello non si sottrae ad “ … un’attenta ponderazione dei valori che la tematica dell’assegno divorzile, nei profili afferenti segnatamente al riconoscimento del diritto, mette in gioco secondo l’innovativa lettura delle SS.UU.”.

Dunque, il risultato “ … si mostra in singolare sintonia con la <<natura composita>> che le SS.UU. hanno inteso rivendicare quale prius qualificante al parametro sulla base del quale procedere al riconoscimento del diritto”.

Più che di una reviviscenza del criterio afferente al tenore di vita, quindi, si tratta del richiamo ad una attenta ponderazione degli elementi costitutivi del diritto all’assegno, sulla base dei principi “recuperati” dalle Sezioni unite nello spirito della L. 898/70, art. 5, c. 6.

Danno “morale terminale”: la Cassazione con la sentenza n. 26727/2018 individua un criterio per il suo riconoscimento

La III sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 26727/2018 depositata il 23 ottobre 2018, ha indicato il proprio orientamento riguardo ad un aspetto, già in passato causa di contrasti, in materia di risarcibilità del c.d. danno terminale. La suddetta sentenza ha, preliminarmente, ripercorso con attenzione e completezza le proprie inerenti precedenti e più rilevanti pronunzie per soffermarsi in particolare su quella n. 15350/2015, resa a Sezioni Unite, che aveva sancito la irrisarcibilità del danno da morte iure hereditatis qualora il decesso della persona fosse immediato, venendo infatti a mancare istantaneamente in tal caso un soggetto titolare di capacità giuridica. Infatti, specificava questa ultima decisione che “una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, e’ necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilita’ deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso… poiche’… cio’ di cui si discute e’ il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilita’ di uno spazio di vita brevissimo”.
Nell’excursus giurisprudenziale svolto era poi presa in esame la situazione nella quale e viceversa, qualora la morte sopraggiunga a distanza di un apprezzabile lasso di tempo (Cass. 21060/2016), oggetto del danno è il bene “salute”, risarcibile in termini di danno biologico terminale (trasmissibile agli eredi), ribadendosi infatti che “quel che sempre ricorre nel periodo di tempo interposto tra la lesione mortale e la morte e’ il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene “salute”)” (Cass. 22541/2017). Mentre, ove invece la persona si trovi in una condizione di lucidita’ agonica, si aggiunge, da parte della sentenza in commento, sostanzialmente quale ineludibile accessorio della devastazione biologica stricto sensu, “un peculiare danno morale che ben puo’ definirsi danno morale terminale sia di danno morale terminale (nell’eventualità che la persona rimanga cosciente e lucida fino alla fine). Distinguendosi questa ultima figura nel rilievo che assume la sofferenza psichica del soggetto che lucidamente comprenda di andare incontro alla fine” ( Cass. n. 26727/2018).
Riconoscendo inoltre, la sentenza in epigrafe, che la predetta pronunzia delle Sezioni Unite n. 15350/2015 doveva essere ulteriormente oggetto di precisazione sul punto in cui, postulando la sostanziale inutilità di uno spazio di vita “brevissimo”, esprimeva la sproporzione di qualsiasi risarcimento, non avendo quest’ultimo funzione sanzionatoria ma soltanto reintegratoria e riparatoria (ad essere preso in considerazione, si ripete, è il bene “vita” in sé stesso). E ciò in quanto riferire un danno come intrinsecamente basato sulla mancanza di utilità del relativo possibile apprezzamento, avrebbe ben potuto costituire delle criticità attinenti a possibili difformi interpretazioni dei giudici di merito nelle relative fattispecie. In altri termini, la presente sentenza ha pregevolmente, si ritiene, specificato come per lasso di tempo brevissimo possa avere rilievo anche solo qualche ora di lucida comprensione del momento da parte della sfortunata persona che sia stata investita dall’evento illecito. Ed infatti la valenza di un “lasso di tempo apprezzabile” è stata individuata proprio nella vicenda all’esame della Suprema Corte riferito al caso in cui un ciclista, dopo essere stato coinvolto in un incidente stradale, restava lucido per ca. tre ore prima di morire a causa delle lesioni subite. Nella sentenza, di accoglimento del ricorso, i Giudici della Cassazione hanno superato quelle criticità strutturali potenzialmente rinvenibili, come appena dettagliato, così appunto affermando: “queste criticità strutturali sono, tuttavia, agevolmente superabili nella fattispecie in cui la persona sia rimasta manifestamente lucida nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dal momento che, se la sua lucidità viene manifestata, non si vede sulla base di quale fondamento possa negarsi, senza violare pure il diritto alla dignità della persona umana (art. 2 Cost.), la risarcibilità del danno non patrimoniale, che sussiste allora ineludibilmente sia sotto il profilo stricto sensu biologico sia sotto il profilo psicologico morale… La corte territoriale, dunque, ha realmente violato … l’art. 2043 c.c. nell’escludere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall’agonia del (omissis) – sia sotto il profilo strettamente biologico sia sotto il profilo psicologico-morale – come diritto insorto in capo a quest’ultimo quando era dotato di capacità giuridica, e pertanto trasmesso iure hereditatis alla moglie e alle figlie””.
Conclusivamente, è pertanto possibile affermare come sia stata finalmente prestata una adeguata attenzione umana, se così si può dire riferendosi ad una interpretazione di diritto resa dalla Suprema Corte di legittimità, ad una delle più complesse problematiche attinenti ai procedimenti risarcitori, ossia quelli che toccano direttamente i superiori beni della salute e della vita. Ciò, naturalmente, a patto che siano rispettate le regole probatorie sottese alla ineccepibile attuale posizione assunta dalla Cassazione in merito.

Adempimento contrattuale ed indebito arricchimento: le Sezioni Unite confermano il nuovo orientamento in materia di modifica delle rispettive domande giudiziali

Con la recentissima sentenza SS.UU. n. 22404/2018 del 13 settembre 2018, la Suprema Corte è intervenuta sulla possibilità o meno di convertire la domanda giudiziale avente ad oggetto una fattispecie di inadempimento contrattuale in un’altra, riguardante l’indebito arricchimento.

La vicenda: un professionista conveniva in giudizio un ente pubblico (Comune di Chiavasso) chiedendone la condanna al pagamento di quanto dovuto per l’espletamento di un incarico di progettazione. L’ente eccepiva la nullità della delibera di conferimento dell’incarico e conseguentemente l’attore, nel termine stabilito per il deposito della memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c., proponeva, in via subordinata, domanda di indennizzo per arricchimento senza giusta causa in ordine alla prestazione eseguita. Il Tribunale di Torino, accertato l’inadempimento da parte del committente, accoglieva la domanda di pagamento presentata dal professionista.

A seguito di gravame proposto dal soccombente, la Corte di Appello di Torino riformava la decisione di primo grado e, dichiarata la nullità della delibera di incarico, rigettava la domanda di pagamento dichiarando altresì l’inammissibilità di quella (successiva) di indebito arricchimento, qualificata come “nuova”.
Gli eredi dell’appellato impugnavano per cassazione la sentenza di secondo grado, deducendo due motivi, il primo dei quali attinente alla ritenuta nullità della delibera di assegnazione dell’incarico ed il secondo relativo alla dichiarata inammissibilità della domanda di indebito arricchimento.

La seconda Sezione, in considerazione dei mutamenti giurisprudenziali succedutisi, rimetteva la questione alle Sezioni unite che hanno ritenuto di dover attribuire rilievo al recente orientamento espresso con la sentenza n. 12310 del 2015, resa sempre a Sezioni Unite, in cui si valorizza l’aspetto “sostanziale” delle vicende processuali, rispetto a quello che riteneva l’impossibilità di operare una “trasformazione”, da adempimento contrattuale ad arricchimento senza giusta causa, attesa la differenza ontologica delle richieste sottostanti (nel primo, pagamento del corrispettivo; nel secondo, l’indennizzo), nonché degli elementi costitutivi delle relative fattispecie (petitum e causa petendi).

E’ dunque possibile modificare la domanda formulata, con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c. comma 5, anche nei suoi elementi costitutivi a condizione che “… tali domande ineriscano alla medesima vicenda sostanziale sottoposta all’esame del giudice e rispetto alla quale la domanda modificata sia più confacente all’interesse della parte”. Nel caso di specie, “entrambe le domande proposte (di adempimento contrattuale e di indebito arricchimento) si riferiscono indubbiamente alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, intesa come unica vicenda in fatto che delinea un interesse sostanziale; sono attinenti al medesimo bene della vita, tendenzialmente inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale (pur se, nell’una, come corrispettivo di una prestazione svolta e, nell’altra, come indennizzo volto alla reintegrazione dell’equilibrio preesistente tra i patrimoni dei soggetti coinvolti); sono legate da un rapporto di connessione “di incompatibilità”, non solo logica ma addirittura normativamente prevista, stante il carattere sussidiario dell’azione di arricchimento, ai sensi dell’articolo 2042 c.c., e tale nesso giustifica ancor di più il ricorso al simultaneus processus”.

Ciò con evidenti ed importantissimi riflessi in ordine ai principi di economia processuale e ragionevole durata del processo (si pensi al rischio di una duplicazione delle azioni giudiziali).

Alla luce di tali considerazioni, il principio di diritto formulato con la sentenza 22404 resa a Sezioni Unite dalla Suprema Corte è il seguente: “E’ ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex articolo 2041 c.c. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex articolo 183 c.p.c., comma 6, nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata“.

La sentenza in commento rende quindi definitivamente chiaro il contorno in cui collocare la domanda risarcitoria per il creditore della Pubblica Amministrazione, rendendo sicuramente giustizia a tutti quei casi in cui i procedimenti di conferimento di incarichi a professionisti o di contratti commerciali con le imprese si siano svolti senza il rispetto delle formalità che ne regolamentano l’azione, ma che, al contempo, sono consapevolmente ovviati dagli stessi Funzionari della P.A. per rendere spedita l’azione della stessa. Senza, tuttavia, che le controparti private, in special modo se piccole imprese che hanno rapporti di correntezza di fornitura o professionisti per prestazioni di non particoare rilievo, siano a conoscenza della normativa che impone alla ripetuta P.A., l’adozione di provvedimenti formali quali ad esempio la deliberazione di copertura delle spese od un contratto assunto dalla competente Direzione successivo ad una deliberazione dell’Ente, conseguendone, in assenza, la nullità assoluta del rapporto e l’inidoneità del medesimo a fondare l’azione contrattuale per il privato. Restando, tuttavia aperta in caso di procedimento giudiziale, la domanda subordinata di indebito arricchimento ex art.2041 c.c. nel corso del medesimo procedimento, con evidente notevole risparmio di tempi e costi per il medesimo, come appunto in precedenza riferito.

Colpa medica: le Sezioni Unite dirimono il contrasto in materia

Con sentenza n. 8770/2018, depositata il 22 febbraio, le Sezioni Unite penali della Suprema Corte hanno reso note le motivazioni in base alle quali è stato esaminato e risolto il contrasto giurisprudenziale in materia di responsabilità medica.

La questione di diritto portata all’attenzione della Corte era la seguente: “Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’articolo 590-sexies cod. pen., introdotta dalla L. 8 marzo 2017, n. 24″.

Nelle sentenze all’origine del contrasto (n. 28187 del 7 giugno 2017, De Luca – Tarabori; n. 50078 del 31 ottobre 2017, Cavazza) il Collegio, dopo aver ravvisato elementi apprezzabili, individua le criticità evidenziate dalle medesime: in sintesi, si evidenzia come “… manchi una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione” (ovvero la L. 24/2017, c.d. Gelli-Bianco). Richiamato l’art. 12 preleggi, viene ricordato che “… la ricostruzione del sistema di esenzione da pena della legge Gelli-Bianco usufruisce in maniera consistente del dibattito già avviato su temi affacciatisi alla disamina della giurisprudenza e della dottrina in relazione al decreto Balduzzi …”.

Infatti, già da quest’ultimo si individuava nelle linee guida, e nella corretta applicazione delle medesime, lo strumento utile a contrastare l’abnorme crescita delle richieste di risarcimento per colpa medica ed il conseguente ricorso alla c.d. medicina difensiva.
La prima delle sentenze in esame, sottolineano le SS.UU., esprimeva una interpretazione che di fatto abrogava la norma, “… giungendo alla frettolosa conclusione circa l’impossibilità di applicare il precetto, negando addirittura la capacità semantica della espressione “causa di non punibilità” …”.
Le seconda cadeva invece nell’eccesso opposto, conferendo alla norma una estensione spropositata, finendo per “… rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave. E ciò, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie …”.

In sintesi, “… non può non riconoscersi che il legislatore ha coniato una inedita causa di non punibilità per fatti da ritenersi inquadrabili – per la completezza dell’accertamento nel caso concreto – nel paradigma dell’articolo 589 o di quello dell’articolo 590 cod. pen., quando l’esercente una delle professioni sanitarie abbia dato causa ad uno dei citati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia e pur avendo individuato e adottato, nonché, fino ad un certo punto, bene attualizzato le linee-guida adeguate al caso di specie …”.

In ogni caso, l’assenza nel testo di legge di un richiamo esplicito alla “colpa lieve” non vieta di farvi riferimento: “… La ricerca ermeneutica conduce a ritenere che la norma in esame continui a sottendere la nozione di “colpa lieve”, in linea con quella che l’ha preceduta e con la tradizione giuridica sviluppatasi negli ultimi decenni. Un complesso di fonti e di interpreti che ha mostrato come il tema della colpa medica penalmente rilevante sia sensibile alla questione della sua graduabilità, pur a fronte di un precetto, quale l’articolo 43 cod. pen., che scolpisce la colpa senza distinzioni interne …”. Inoltre,”… è da condividere l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui la valutazione sulla gravità della colpa (generica) debba essere effettuata “in concreto”, tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che è quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi …”.

Per quanto attiene al problema dell’individuazione (ed applicazione) della legge più favorevole, l’art. 3 L. 189/2012 “… risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario – commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco – connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate”; inoltre, “… l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi … mentre non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole …”; infine, “… l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’articolo 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente … la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio …”.

Le conclusioni a cui è pervenuta la Corte offrono una interpretazione conforme ai precetti costituzionali ed enucleano il significato che risulta più rispondente al testo normativo (tenendo conto degli obiettivi esplicitamente perseguiti dal Parlamento); costituiscono pertanto un arresto difficilmente superabile in una materia estremamente delicata, in cui è fondamentale il maggior contemperamento possibile tra le opposte esigenze del paziente da un lato (diritto ad usufruire di trattamenti sanitari correttamente diagnosticati ed eseguiti) e degli operatori sanitari dall’altro (diritto ad esplicare le proprie capacità professionali in piena autonomia, al riparo dal timore di “rappresaglie

“Social networks”: comportamenti a rischio ed abuso dello strumento

In occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha richiamato l’attenzione sulla fatto che “L’abuso dei mezzi di comunicazione e degli strumenti di partecipazione sociale messi a disposizione dalla Rete costituisce un fenomeno crescente e preoccupante”. Ha inoltre aggiunto che “Da un lato è violato il diritto della collettività ad essere informata in maniera corretta, dall’altro sono messi in moto meccanismi di diffusione sociale delle notizie che possono arrecare, anche inconsapevolmente, danni a soggetti terzi. Il fenomeno può essere contrastato validamente, oltre che con le tradizionali forme di tutela giudiziaria, con la prevenzione, contrastando l’abuso prima che si realizzi il danno. Deve, pertanto, aumentare la consapevolezza degli utenti circa i pericoli della disinformazione e deve incrementarsi mediante un appropriato monitoraggio la conoscenza delle fonti di abuso”.

E’ ormai spropositata, purtroppo, la quantità non soltanto di informazioni, ma di materiale (soprattutto videoriprese) a contenuto sessuale diffusi sul web da ex-fidanzati o coniugi che decidono di “vendicarsi” in tal modo di presunti torti subiti. In particolare, con riferimento al suicidio di una giovane donna, avvenuto nel 2016, si consideri che la procedura per ottenere la rimozione da Facebook dei contenuti postati su quella piattaforma non è stata di semplice né rapida attuazione, né ad oggi è possibile affermare con sicurezza che il video, la cui diffusione era all’origine della tragedia, sia stato completamente rimosso dalla rete internet.

In proposito appare particolarmente significativo il dato per cui sempre più spesso la diffusione di foto ed informazioni personali relative a minori avviene ad opera dei genitori stessi, scarsamente consapevoli (quando non del tutto ignari) delle conseguenze pratiche, ancor prima che giuridiche, di un uso non accorto dei moderni strumenti di “condivisione”.

Proprio di recente il Tribunale di Mantova, con ordinanza del 19 settembre 2017, ha ingiunto ad un genitore di “… non inserire le foto dei figli sui social network …” nonché “… di provvedere, immediatamente, alla rimozione di tutte quelle da essa inserite …”.
Ha ritenuto infatti il giudicante che “… l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto on-line, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che “taggano” le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati, come ripetutamente evidenziato dagli organi di polizia”. Inoltre, “… il pregiudizio per il minore è dunque insito nella diffusione della sua immagine sui social network sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente”.

Anche il Tribunale di Roma – sez. I civile – con ordinanza del 23 dicembre 2017 ha analogamente provveduto ad inibire la diffusione di immagini ed informazioni da parte di un genitore, disponendo altresì che si procedesse alla “… richiesta di deindicizzazione dai motori di ricerca e alla diffida anche a terzi di astenersi dalla diffusione e di procedere alla cancellazione dai social network delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo al minore …”.

Va sottolineato come, pur in assenza di una specifica prescrizione normativa, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (emanata nel 1989 e ratificata in Italia con Legge 27 maggio 1991, n. 176) ha affermato nell’art. 16 il principio secondo cui: ” 1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti”.

In ogni caso, si deve tener presente che la rimozione definitiva di un documento “postato” su un qualunque sito internet può rivelarsi di estrema difficoltà, se non addirittura soltanto teorica, soprattutto qualora si tratti del cosiddetto “dark web”, ritenendosi pertanto come da un lato sia necessario acquisire una diversa e matura consapevolezza dell’uso di questi strumenti tecnologici i quali, troppo spesso, sono oggi utilizzati con fini pericolosi ed in diversi casi ad alto rischio per l’incolumità psico-fisica delle persone. Dall’altro come debbano necessariamente studiarsi ed applicarsi opportune soluzioni tecniche che possano realmente inibire la presenza di contenuti dannosi sul web.

Le Sezioni Unite “fanno il punto” sui requisiti dell’appello: sentenza n. 27199 del 10 ottobre 2017

Con la recentisima pronuncia n. 27199 del 10 ottobre 2017, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute in maniera netta sulla questione, sottoposta lo scorso aprile al Primo Presidente, relativa all’ammissibilità dei ricorsi in appello di cui ai novellati artt. 342 e 434 c.p.c., con particolare riferimento alla specificità dei motivi.

Dopo aver rilevato, al termine di un excursus sulle pronunce di legittimità in materia, che successivamente alle modifiche legislative non si sono verificati contrasti, il Collegio ha sottolineato come “… gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza della Corte è già pervenuta all’indomani della riforma del 2012 debbano essere oggi confermati...”. Il D.L. 82/2012, in pratica, non ha fatto altro che recepire quanto affermato costantemente dalla Cassazione sin dal 2000. Era infatti pacifico l’assunto secondo il quale, in assenza dei requisiti individuati, l’atto di impugnazione è inammissibile.

In particolare, non è sufficiente limitarsi all’esposizione di una serie di desiderata in contrasto con quanto deliberato dal giudice di prime cure; l’atto dovrà contenere anche delle (solide) argomentazioni che, in maniera più o meno ampia e specifica a seconda della complessità della motivazione, si pongano in antitesi con quest’ultima. Pertanto, la parte ricorrente deve far sì che il giudice dell’appello possa agevolmente rendersi conto del contenuto delle censure prospettate, a sua volta “… dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili“.

Viene tuttavia ribadito che il fine non è certo quello di “… costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste“. La regola generale, infatti, è quella di interpretare le norme processuali nel senso di “… favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale”, anche ai sensi di quanto stabilito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in materia di limitazioni all’accesso ai procedimenti giudiziari.

Si è così giunti alla formulazione del seguente principio di diritto: “Gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado“.

Una definitiva e netta chiarificazione, quindi, della necessità di svolgere gli atti di appello con la maggiore attenzione possibile riguardo alla sostanza delle ragioni di impugnazione che debbono assumere il requisito di una superiore valenza rispetto al primo esame di ammissiblità del gravame circa il quale, inevitabilmente, ogni controparte appellata farà leva per tentare appunto di rendere vana l’impugnazione, da un lato, mentre dall’altro si soffermerà in via preliminare l’esame dei Giudicanti.

Flash: Sulla colpa medica dovranno pronunciarsi le Sezioni unite

Le recentissime sentenze della IV Sez. Penale della Suprema Corte, rispettivamente la n. 28187 del 7 giugno 2017* (dove il giudicante ha considerato più favorevole la previsione di cui alla Legge 189/2012, escludendosi la rilevanza penale delle condotte contraddistinte da colpa lieve) e la n. 50078 del 31 ottobre 2017** (in cui al contrario è stata ritenuta più favorevole la successiva Legge n. 24/2017, essendo venuto meno ogni riferimento al grado della colpa), hanno determinato un insanabile contrasto con riguardo alla nuova ed articolata disciplina relativa alle linee guida, che costituisce il parametro esclusivo in base al quale valutare la colpa medica in caso di imperizia nel trattamento sanitario.
Preso atto della situazione, dovendosi valutare le potenziali conseguenze della nuova causa di non punibilità, il presidente della IV sezione della Suprema Corte ha deciso di sottoporre preventivamente la questione alle Sezioni unite, che ne discuteranno tra circa un mese in modo da pervenire auspicabilmente ad una interpretazione omogenea della delicata questione. Seguiranno i relativi aggiornamenti.

*In tema di colpa medica, la nuova disciplina dettata dall’art. 590-sexies, cod. pen. (introdotta dall’art. 6, comma secondo, della legge 8 marzo 2017, n. 24) – che, nel caso di evento lesivo o mortale verificatosi a causa di imperizia dell’esercente la professione sanitaria, esclude la punibilità dell’agente il quale abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida ufficiali ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche assistenziali, e sempre che tali raccomandazioni risultino adeguate alle specificità del caso concreto – non trova applicazione: a) negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida; b) nelle situazioni concrete in cui le suddette raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiari condizioni del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate; c) in relazione alle condotte che, sebbene collocate nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti e appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, come nel caso di errore nell’esecuzione materiale di atto chirurgico pur correttamente impostato secondo le raccomandazioni ufficiali“.

**L’articolo 590-sexies cod. pen., comma 2, articolo introdotto dalla L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), prevede una causa di non punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse“.

Iliceità della polizza claims made in caso di esclusione della copertura dei danni richiesti dopo la vigenza del contratto. Cassazione Civile, sez. III, sentenza 28/04/2017 n° 10506

La sentenza n. 10506/2017, con cui la terza sezione della Cassazione si è pronunciata, in materia di responsabilità medica, sulla validità della clausola claims made in relazione alle cosiddette “richieste postume”, costituisce un utile motivo di riflessione per le ipotesi di coinvolgimento in giudizio delle Compagnie Assicurative in relazione alla peculiare tipologia della polizza cosiddetta claims made (letteralmente “a richiesta fatta”) .
Può accadere non di rado che una richiesta di risarcimento, per danno da responsabilità del medico o della struttura sanitaria, venga avanzata a distanza di molti anni (se non decenni) dalla data in cui si è svolta la relativa prestazione.
Qualora la polizza assicurativa stipulata da una struttura sanitaria contempli una clausola di esclusione riguardo la risarcibilità del danno (c.d. clausola claims made mista o impura), nell’eventualità in cui il danneggiato presenti la relativa richiesta successivamente alla scadenza del periodo di copertura, si verificherebbe non un caso di vessatorietà, come chiarito dalle Sezioni unite ripetutamente, ma, in relazione al risultato concreto raggiunto, un giudizio di non meritevolezza dell’accordo secondo il dettato dell’art. 1322 c.c.: ciò in quanto la clausola non sarebbe diretta a “…realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
Il fatto sotteso alla pronuncia in esame riguarda un giudizio proposto da un paziente avverso l’azienda ospedaliera ove era stato curato, nel quale era richiesto a quest’ultima il risarcimento del danno in conseguenza di un intervento chirurgico assunto come imperitamente eseguito. L’Azienda si costituiva in giudizio chiamando in garanzia la propria Assicurazione circa la responsabilità civile, ma questa contestò che il contratto escludeva la garanzia per i fatti illeciti commessi dall’assicurato, anche durante la vigenza del contratto, ove la domanda di risarcimento proveniente dal terzo fosse pervenuta all’assicurato dopo la scadenza del periodo di assicurazione. Il Tribunale rigettò la domanda di garanzia, ma la Corte di Appello la accolse, pertanto la Compagnia assicuratrice ricorreva in Cassazione.
Il principio di diritto formulato dalla Corte nella predetta sentenza sentenza n° 10506 del 28/04/2017 stabilisce che la clausola in questione “… inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un’azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura esclusiva è prestata solo se tanto il danno causato dall’assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell’assicurazione, è un patto atipico immeritevole di tutela ai sensi dell’articolo 1322 c.c., comma 2, in quanto realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell’assicuratore, e pone l’assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione”.
Infatti, attraverso l’utilizzo di strumenti in sé e per sé leciti, si perverrebbe a risultati addirittura paradossali in ordine alle conseguenze per l’assicurato, dal momento che la clausola configurata come sopra farebbe discendere l’obbligo della prestazione in capo all’assicuratore “… non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile a colpa dell’assicurato, ma altresì da un ulteriore evento futuro ed incerto dipendente dalla volonta’ del terzo danneggiato: la richiesta di risarcimento”. E ciò con buona pace del principio informatore alla base del concetto stesso di contratto di assicurazione.
La sentenza in questione risulta assumere particolarmente rilievo anche per quanto riguarda gli eventuali riflessi in altri settori professionali, in primis l’ambito forense, soprattutto in seguito all’introduzione dei nuovi precetti in materia di assicurazione obbligatoria.