Con la recentisima pronuncia n. 27199 del 10 ottobre 2017, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute in maniera netta sulla questione, sottoposta lo scorso aprile al Primo Presidente, relativa all’ammissibilità dei ricorsi in appello di cui ai novellati artt. 342 e 434 c.p.c., con particolare riferimento alla specificità dei motivi.
Dopo aver rilevato, al termine di un excursus sulle pronunce di legittimità in materia, che successivamente alle modifiche legislative non si sono verificati contrasti, il Collegio ha sottolineato come “… gli approdi interpretativi ai quali la giurisprudenza della Corte è già pervenuta all’indomani della riforma del 2012 debbano essere oggi confermati...”. Il D.L. 82/2012, in pratica, non ha fatto altro che recepire quanto affermato costantemente dalla Cassazione sin dal 2000. Era infatti pacifico l’assunto secondo il quale, in assenza dei requisiti individuati, l’atto di impugnazione è inammissibile.
In particolare, non è sufficiente limitarsi all’esposizione di una serie di desiderata in contrasto con quanto deliberato dal giudice di prime cure; l’atto dovrà contenere anche delle (solide) argomentazioni che, in maniera più o meno ampia e specifica a seconda della complessità della motivazione, si pongano in antitesi con quest’ultima. Pertanto, la parte ricorrente deve far sì che il giudice dell’appello possa agevolmente rendersi conto del contenuto delle censure prospettate, a sua volta “… dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili“.
Viene tuttavia ribadito che il fine non è certo quello di “… costruire un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste“. La regola generale, infatti, è quella di interpretare le norme processuali nel senso di “… favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale”, anche ai sensi di quanto stabilito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in materia di limitazioni all’accesso ai procedimenti giudiziari.
Si è così giunti alla formulazione del seguente principio di diritto: “Gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado“.
Una definitiva e netta chiarificazione, quindi, della necessità di svolgere gli atti di appello con la maggiore attenzione possibile riguardo alla sostanza delle ragioni di impugnazione che debbono assumere il requisito di una superiore valenza rispetto al primo esame di ammissiblità del gravame circa il quale, inevitabilmente, ogni controparte appellata farà leva per tentare appunto di rendere vana l’impugnazione, da un lato, mentre dall’altro si soffermerà in via preliminare l’esame dei Giudicanti.