Con ordinanza n. 8755 del 29 marzo 2019, la III sezione della Suprema Corte, nonostante il contrastante orientamento delle Sezioni unite ormai ultradecennale, ha affermato la possibilità di risarcire il danno morale pur se non come categoria autonoma di danno ma come “figura descrittiva di un aspetto del danno non patrimoniale”.
I giudici hanno infatti rigettato il ricorso presentato da una compagnia assicuratrice, che lamentava una duplicazione delle voci di danno liquidate in sede di appello, sul presupposto dell’obbligo (attesa la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale), per il giudice di merito, “… di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in peius della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa …”.
Ricordata la necessità di distinguere tra l’aspetto interiore del danno subito e l’aspetto dinamico-relazionale del medesimo, la Suprema Corte stabilisce che “… nella valutazione del danno alla salute, in particolare … il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”) …”, ribadendo altresì che una personalizzazione è possibile soltanto in presenza “… di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari …”.
Dunque, mentre si ha una duplicazione in caso di riconoscimento di danno biologico congiuntamente al danno esistenziale, “… una differente ed autonoma valutazione va compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute …”.
In sostanza, la liquidazione “… finalisticamente unitaria del danno non patrimoniale … ha pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore … quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche …”.
Si verifica quindi una vera e propria contrapposizione, nella giurisprudenza di legittimità, tra sofferenza “interiore” quale elemento a sé stante oppure quale componente del danno biologico tout court, derivandone una inevitabile incertezza che, in teoria, non avrebbe più avuto ragion d’essere a seguito della pronuncia a Sezioni unite del 2008. Difficile al momento prevedere l’evoluzione e l’incidenza che questa attuale pronunzia potrà avere ma, sicuramente, la stessa si presenta come una prospettiva diversa ed ulteriore rispetto a quanto ormai sembrava completamente e conclusivamente assodato.