Dopo la Cassazione (sui nuovi principi in tema di assegno divorzile), un immediato adeguamento…

Il Tribunale di Milano con ordinanza presidenziale della IX Sezione emessa il 22 maggio 2017, richiamando espressamente i principi affermati dalla sentenza n. 11504/17 della Corte di cassazione, ha iniziato a delineare alcuni confini in materia di assegno divorzile.
Ad essere posto in rilievo è il concetto di indipendenza economica di un individuo, ossia “… la capacità per una determinare persona adulta e sana – tenuto conto del contesto sociale di inserimento – di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali …”.

Venuto meno ogni riferimento al “tenore di vita”, di cui il coniuge più debole godeva, si dovranno considerare altri elementi: nel quadro del principio di auto-responsabilità, l’assegno divorzile, ove si stabilisca che esso è dovuto, non avrà comunque la funzione di ridurre o – tanto meno – azzerare gli squilibri tra i redditi degli ex coniugi.

In particolare, il Tribunale ha deciso di considerare l’eventuale percezione di redditi da parte del coniuge richiedente l’assegno, nonché, ovviamente, la consistenza dei medesimi anche in relazione, ad esempio, al livello reddituale “medio” della zona in cui il richiedente abita. Nel fare ciò, ha adottato il parametro “… (non esclusivo) … rappresentato dall’ammontare degli introiti che, secondo le leggi dello Stato, consente (ove non superato) a un individuo di accedere al patrocinio a spese dello Stato (soglia che, ad oggi, è di euro 11.528,41 annui ossia circa euro 1000 mensili)“.

In definitiva, per la determinazione del quantum (si ripete, qualora sia accertato l’an) non vi sarà più spazio per valutazioni di carattere probabilistico (come il tenore di vita di cui il coniuge avrebbe potuto godere): soltanto all’esito di una attività istruttoria puntuale e basata su fatti concreti, potrà farsi luogo all’applicazione del “… principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole …”. 

Questo l’orientamento del Tribunale di Milano, che ha subito recepito i principi espressi dalla sentenza della Suprema Corte n.11504/2017, probabile ritenere che anche le altri Corti di Giustizia seguano la stessa direzione.

Corte di Cassazione, Sentenza n. 11504/2017, sulla disciplina dell’assegno di divorzio: il criterio da osservare deve essere l’autosufficienza e non il tenore di vita.

Con riferimento alla nota sentenza n. 11504/2017 recentemente emessa dalla I Sezione della Corte di Cassazione, attenuatosi il clamore mediatico suscitato dalla portata “rivoluzionaria” della medesima, appare opportuno formulare alcune osservazioni al riguardo.

Si deve infatti preliminarmente osservare come – già a seguito delle modifiche apportate nel 1987 all’art. 5, comma 6, della legge n. 898/1970 – la formulazione del medesimo risultasse la seguente: «il tribunale … dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando questo ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Non a caso, l’art. 156 c.c. stabilisce esclusivamente che al coniuge sia assegnato «quanto è necessario al suo mantenimento, in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato»: era pertanto fin da allora pacifica la natura assistenziale dell’assegno.

A seguito delle pronunce delle Sez. unite n. 11490 e n. 11492 del 1990, in cui prevaleva l’intento di non provocare fratture troppo profonde rispetto alle implicazioni discendenti dalla concezione “tradizionale” del matrimonio in ordine agli effetti patrimoniali dello stesso, la giurisprudenza si è orientata in maniera pressoché unanime nella direzione di garantire al coniuge economicamente più debole (la moglie, di solito) la prosecuzione del tenore di vita di cui godeva (o di cui avrebbe potuto godere) in costanza del vincolo – elemento questo non rinvenibile in punto di diritto -, avendo riguardo esclusivamente alle condizioni economiche dell’altro coniuge. Ciò anche a causa di una impropria commistione tra la fase decisionale relativa all’ an e quella, successiva ed eventuale, relativa al quantum della erogazione, con l’ulteriore conseguenza di “riportare in vita”, quanto agli effetti patrimoniali, un rapporto estinto sotto ogni altro aspetto.

A distanza di quasi tre decenni da tali statuizioni, correttamente la I sezione ha ritenuto di doversene discostare per fare luogo ad una più evoluta concezione dei rapporti matrimoniali, con riferimento ai principi di libertà ed auto-responsabilità che dovrebbero improntare il modo di relazionarsi qualora sia venuta meno la vita di coppia. Ciò anche alla luce dei Principi elaborati dalla Commission on European Family Law: la regola generale, a cui dovrebbe conformarsi l’ordinamento europeo, è quella in base alla quale dopo il divorzio ciascun coniuge deve provvedere ai propri bisogni (p. 2.2 dei ricordati «Principi»).

Attendiamo ora di riscontrare la possibile introduzione di numerosi ricorsi tendenti a modificare le pattuizioni patrimoniali già assunte in forza delle pronunzie legate alla precedente interpretazione giurisprudenziale, ovviamente troppo presto ora per immaginare la concreta portata di tale mutamento,

Approvato il Disegno di Legge 2224-Gelli in materia di responsabilità sanitaria

Il 28 febbraio la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il DDL recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. La legge, n.24 del giorno 8 marzo 2017, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 84 del 17 marzo u.s. ed entrerà in vigore il 1^ aprile 2017 (il link al testo della norma è disponibile alla fine dell’articolo). Segue una breve sintesi delle novità introdotte.

Atteso da tempo, il provvedimento ha come obiettivo quello di garantire un maggior grado di tutela ai pazienti, nonché di porre rimedio alla abnorme conflittualità sviluppatasi nei rapporti fra gli operatori sanitari ed i loro assistiti.

In relazione al tema della sicurezza e prevenzione in materia di cure ed assistenza, è stato individuato a tal fine lo strumento della creazione di strutture sia a livello nazionale (Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza) che a livello regionale (Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e sicurezza del paziente). I Centri regionali raccoglieranno dati su rischi, eventi avversi, contenzioso e li trasmetteranno all’Osservatorio, il quale inoltre contribuirà ad elaborare misure per la gestione del rischio e la sicurezza delle cure, oltre che per la formazione e l’aggiornamento del personale sanitario. I dati relativi ai risarcimenti erogati nell’ultimo quinquennio dovranno essere pubblicati sui siti internet delle strutture.

Nel caso in cui il paziente faccia richiesta della documentazione sanitaria che lo riguarda, la direzione sanitaria della struttura fornirà tale documentazione entro sette giorni, preferibilmente in formato elettronico.

Anche con riguardo alle problematiche inerenti il rapporto tra assistiti, professionisti e strutture sanitarie, le novità introdotte appaiono rilevanti.

Con l’introduzione dell’articolo 590 sexies c.p. viene istituita la fattispecie di responsabilità colposa “per morte o lesioni personali in ambito sanitario”: si prevede l’esclusione della punibilità in caso di imperizia qualora risulti l’osservanza di linee guida individuate ai sensi della legge.

Confermato il “doppio regime” in materia di responsabilità: contrattuale ( in capo alle strutture, anche per danni causati dai professionisti) ed extracontrattuale (riguardo ai professionisti chiamati in causa) con importanti conseguenze in ordine all’onere della prova ed ai termini di prescrizione.

I risarcimenti dovranno essere quantificati in base alle tabelle sul danno biologico previste dal codice delle assicurazioni private, evitando così interpretazioni e disparità di trattamento. Viene inoltre disposta la creazione di un fondo di garanzia per danni derivanti da responsabilità sanitaria, finanziato da versamenti annuali a carico delle compagnie assicuratrici.

Confermato anche il tentativo di conciliazione a partecipazione obbligatoria, riguardante tutte le parti, a pena di improcedibilità; l’azione di rivalsa successiva nei confronti dell’operatore sanitario potrà essere ammessa soltanto in caso di dolo o colpa grave.
Si introduce poi l’obbligo di polizze assicurative per strutture e professionisti (compresa la copertura per danno erariale in caso di colpa grave), con la possibilità di richiedere il risarcimento direttamente alla compagnia della struttura sanitaria.

Tuttavia, la previsione della clausola di invarianza finanziaria (che impone l’utilizzo delle risorse già disponibili impedendo nuovi o maggiori costi per il servizio sanitario nazionale) lascia evidentemente adito a dubbi sui tempi necessari per la piena operatività degli uffici di nuova introduzione.

Legge 8 marzo 2017 n. 24 – conversione ddl Gelli

Il danno all’immagine delle persone giuridiche.

Deve premettersi che per danno all’immagine si intende la violazione di un insieme di diritti i quali, strettamente connessi alla personalità umana come esemplificativamente quelli alla reputazione ed al nome, sono stati riconosciuti, nel percorso di evoluzione della giurisprudenza e della dottrina, anche in capo alla persona giuridica.

Come noto il danno all’immagine rientra nelle fattispecie di danno non patrimoniale e può intuitivamente assumere riguardo alle persone giuridiche, una rilevanza di assoluto rilievo, si pensi infatti al pregiudizio che può derivare ad una Società od ad un Ente, indifferentemente se privati o pubblici, non solo da atti diffamatori, ma anche da illeciti civili che anch’essi possono intaccare la reputazione della persona giuridica. Anche gli inadempimenti contrattuali, ove rilevanti quanto agli effetti, possono costituire un danno all’immagine della medesima.

Va rammentato al riguardo che la Suprema Corte di Cassazione dieci anni fa stabilì, nella sua famosa sentenza n. 12929 del 4 giugno 2007, il principio per cui la lesione del diritto all’immagine cagiona un danno non patrimoniale risarcibile; tale danno deve essere risarcito anche se riguarda una persona giuridica e non un persona fisica: «Anche nei confronti della persona giuridica e in genere dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica … che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l’immagine della persona giuridica o dell’ente; allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente che esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca».

Ne consegue come per le persone giuridiche vengano individuati due distinti profili di tutela: nel caso in cui si tocchi la reputazione degli organi che rappresentano la persona giuridica od agiscano nel suo interesse, si distingue un profilo “personale”, mentre, chiaramente, nel caso in cui il pregiudizio tocchi la stima, il buon nome o la reputazione della stessa persona giuridica o aggredisca e quello “commerciale” – laddove invece si faccia riferimento alla reputazione della società o ente in relazione alla sua sfera di azione.

Un esempio che rende chiarezza del punto e che costituisce un riferimento ad una tematica ampiamente sviluppata dalla giurisprudenza è quello che attiene al danno causato alla reputazione commerciale di una persona giuridica dalla illegittima segnalazione di società commerciali alla Centrale Rischi presso la Banca d’Italia, operata dagli Istituti bancari. In merito la Corte di Cassazione ha stabilito come una segnalazione affrettata, la quale sia basata su una difficoltà economica momentanea e non strutturale o seriamente grave, debba essere punita attraverso il risarcimento anche al danno non patrimoniale che consegue a quella Società dal discredito ricevuto (tra le molte, Corte di Cassazione, sez. I civile, sent. 9 luglio 2014, n. 15609).

Il Ddl 2224 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” è stato approvato dal Senato. In attesa dell’approvazione definitiva della Camera, ecco le più rilevanti novità.

In primo luogo va segnalato l’obbligo di assicurazione per tutte le strutture sanitarie pubbliche e private, per cui la persona che  dovesse ritenere di aver subito un danno a causa di una inadeguata condotta medico-sanitaria potrà rivolgersi direttamente all’assicurazione dell’istituto sanitario.
Si conferma, inoltre, nel provvedimento approvato dal Senato, la necessità del tentativo obbligatorio di conciliazione da introdurre prima del giudizio per cui, nel caso la persona non fosse soddisfatta delle eventuali proposte ricevute dall’assicurazione, potrà agire nei confronti della struttura sanitaria e del medico.
E qui vi è un notevole cambiamento in quanto, ferma restando la responsabilità contrattuale della casa di cura, pubblica o privata, e le relative conseguenze circa l’onere della prova (a carico di quest’ultima in ordine alla correttezza dei trattamenti svolti) e della prescrizione (decennale), nei confronti del medico della casa di cura la responsabilità diviene extracontrattuale per cui sarà la persona che agisce a dover dimostrare di aver subito un danno per colpa del sanitario, con prescrizione quinquennale.
Infine, il risarcimento sarà determinato con puntuale riferimento alle tabelle previste per l’indennizzo del danno biologico per dare uniformità ed evitare il ricorso ad interpretazioni discrezionali potenzialmente disomogenee per casi simili. Almeno questo l’intento.
Si attende l’approvazione finale della Camera.

Il luogo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito una questione oggetto di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali, ossia quella riferita al luogo di adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Con sentenza n.17989 depositata il 13 settembre 2016 la Suprema Corte ha definitivamente stabilito che “Le obbligazioni di natura pecuniaria che devono essere adempiute al domicilio del creditore, in virtù del disposto dell’art. 1182, comma 3, c.c., sono, agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219, comma 2, n. 3, c.c., sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20, ultima parte, c.p.c., soltanto quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare margine alcuno di scelta discrezionale, ed i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti, in conformità a quanto dispone l’art. 38, ultimo comma, c.p.c.”.

Si è quindi risolta la divergenza sussistente in giurisprudenza tra due correnti di pensiero, da un lato quello che assumeva come nel caso dovesse ancora essere determinato dalle parti o dal giudice l’ammontare della somma di denaro oggetto dell’obbligazione, il luogo dell’adempimento dell’obbligazione si identificava con quello del domicilio del debitore al momento della scadenza della stessa obbligazione. Per l’altro orientamento, diversamente, il domicilio del creditore sussiste in tutti i giudizi ove questi ha chiesto l’adempimento di un’obbligazione di denaro che egli ha determinato nell’ammontare, mentre è ininfluente per determinare la competenza territoriale l’eventuale indagine o la complessità della stessa circa la quantificazione del credito.

La decisione della Suprema Corte, che alla fine ha stabilito di seguire il primo orientamento, ha ritenuto come preferibile la tutela della posizione del debitore il quale, in assenza di una precisa indicazione rilevata dal titolo di credito della somma determinata di cui si chiede appunto l’adempimento da parte del creditore, sarebbe in altri termini esposto ad una quantificazione di natura arbitraria da parte di quest’ultimo che ben potrebbe rappresentare come dovuta una somma assunta alla base della sua pretesa giudiziale,  tuttavia diversa rispetto a quella che il debitore dovrebbe realmente corrispondergli.

Natura della responsabilità per emotrasfusioni e termine prescrizionale

Una ulteriore conferma in ordine alla natura extracontrattuale della responsabilità dell’Amministrazione sanitaria e del connesso termine prescrizionale per i danni derivanti dalle emotrasfusioni, perviene dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n.6213 del 31 marzo 2016. La Suprema Corte, richiamando i propri precedenti, ha riaffermato il seguente principio di diritto: “ La responsabilita’ del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HPV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi e’ di natura extracontrattuale, ne’ sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo e’ soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma dell’articolo 2955 c.c. e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensi’ da quello in cui tale malattia viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui alla L. 25 febbraio 1992, n. 210, articolo 4 ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l’esistenza, in capo all’interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia”.

 

Di seguito la sentenza integrale.

 

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile

 

Sentenza 31 marzo 2016, n. 6213

Data udienza 11 gennaio 2016

 

IGIENE E SANITA’ – RESPONSABILITA’ PROFESSIONALE

 

sul ricorso 25367-2013 proposto da:

 

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;

 

– ricorrente –

 

contro

 

MINISTERO DELLA SALUTE, (OMISSIS), domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui e’ difeso per legge;

 

– controricorrente –

 

avverso la sentenza n. 753/2012 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 08/11/2012, R.G.N. 623/2009;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/01/2016 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

I FATTI

 

In data 31.1.2002 (OMISSIS) convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Lecce il Ministero della Salute, assumendo di essere affetta dalla nascita da “Beta Talassemia maior”, di essersi per questo motivo dovuta sottoporre a numerose trasfusioni presso strutture pubbliche e private, e di aver contratto il virus dell’epatite C in conseguenza di una delle trasfusioni, nonche’ di aver presentato richiesta di indennizzo ex lege n. 210 del 1992 nel 1993. Chiese la condanna del Ministero al risarcimento dell’intero danno subito; il Ministero eccepi’ l’inammissibilita’ della domanda per aver la danneggiata gia’ visto riconosciuto il suo diritto al pagamento dell’indennizzo, nonche’ l’intervenuta prescrizione.

Il Tribunale di Lecce nel 2009 rigettava la domanda dell’attrice per essere maturata, al momento della proposizione della domanda giudiziale, la prescrizione quinquennale. La pronuncia veniva confermata dalla Corte d’Appello di Lecce con la sentenza qui impugnata.

(OMISSIS) propone un unico, articolato motivo di ricorso per cassazione nei confronti del Ministero della Salute, per la cassazione della sentenza n. 753/2012, depositata dalla Corte d’Appello di Lecce in data 8.11.2012.

 

Resiste con controricorso il Ministero della Salute.

 

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

 

Con l’unico motivo dedotto, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 2935, 2943, 2946 e 2947 c.c., dell’articolo 112 c.p.c. nonche’ denuncia l’insufficiente analisi dei fatti e circostanze decisivi ai fini della risoluzione della controversia.

 

Il profilo del vizio di motivazione, in relazione al quale si richiama una nozione di vizio di motivazione non piu’ vigente al momento della proposizione del ricorso, non e’ sviluppato nel ricorso.

In relazione alla dedotta violazione di legge, la ricorrente sostiene, con numerose argomentazioni, che la sentenza impugnata abbia errato laddove, richiamando pedissequamente i principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di durata e decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da emotrasfusioni, ha rigettato la sua domanda in quanto prescritta. La sentenza impugnata non avrebbe rispettato i principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in particolare l’articolo 1 del protocollo 1 che esige che l’ingerenza dell’Autorita’ pubblica nel godimento del diritto al rispetto dei beni sia effettuata in modo legale ed ancora che, come affermato da alcune pronunce della CEDU, per potersi avere il decorso del termine di accesso ad un’azione gli interessati devono essere stati posti in grado di avere conoscenza dei loro diritti e questi diritti non devono essere stati compressi eccessivamente. Rileva anche che l’indennizzo nella sua versione originaria aveva natura piu’ simile ad un risarcimento che a una tutela indennitaria, per cui ai danneggiati non risultava chiaro, e non e’ stato chiaro fino a tempi recenti, che si potessero cumulare le due forme di tutela e quindi lamenta che riconducendo il dies a quo della prescrizione del diritto risarcitorio alla proposizione della domanda di indennizzo la ricorrente sia rimasta priva della possibilita’ di accedere ad una riparazione integrale del danno. Argomenta inoltre, riportando passi di una inchiesta penale, sulla configurabilita’ del reato ipotizzabile in termini di epidemia colposa, e non di semplici lesioni colpose, in ragione della diffusivita’ del contagio ad un numero indeterminato di persone, con conseguente applicabilita’ del piu’ lungo termine di prescrizione.

Si tratta di questione ben nota, gia’ piu’ volte esaminata e decisa sulla base di un principio di diritto al quale i giudici di merito si sono correttamente uniformati, rispetto al quale il ricorso ripropone argomentazioni anch’esse gia’ note, esaminate e superate dalla giurisprudenza di questa Corte.

Il ricorso va pertanto rigettato, essendosi i giudici di merito correttamente uniformati al seguente principio di diritto: responsabilita’ del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HPV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi e’ di natura extracontrattuale, ne’ sono ipotizzabili, al riguardo, figure di reato tali da innalzare i termini di prescrizione (epidemia colposa o lesioni colpose plurime); ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo e’ soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma dell’articolo 2955 c.c. e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensi’ da quello in cui tale malattia viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui alla L. 25 febbraio 1992, n. 210, articolo 4 ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l’esistenza, in capo all’interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia” (Cass. n. 28464 del 2013; Cass. S.U. n. 576 del 2008).

In ragione della particolarita’ della questione e della indicata pendenza di trattative per concludere una transazione sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese di giudizio tra le parti.

Atteso che il ricorso per cassazione e’ stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, ed in ragione della soccombenza della ricorrente, che pero’ risulta ammessa al gratuito patrocinio, la Corte, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater da’ atto della insussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. articolo 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese di giudizio tra le parti.

Da’ atto della insussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.