Danno “morale terminale”: la Cassazione con la sentenza n. 26727/2018 individua un criterio per il suo riconoscimento

La III sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 26727/2018 depositata il 23 ottobre 2018, ha indicato il proprio orientamento riguardo ad un aspetto, già in passato causa di contrasti, in materia di risarcibilità del c.d. danno terminale. La suddetta sentenza ha, preliminarmente, ripercorso con attenzione e completezza le proprie inerenti precedenti e più rilevanti pronunzie per soffermarsi in particolare su quella n. 15350/2015, resa a Sezioni Unite, che aveva sancito la irrisarcibilità del danno da morte iure hereditatis qualora il decesso della persona fosse immediato, venendo infatti a mancare istantaneamente in tal caso un soggetto titolare di capacità giuridica. Infatti, specificava questa ultima decisione che “una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, e’ necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilita’ deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso… poiche’… cio’ di cui si discute e’ il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilita’ di uno spazio di vita brevissimo”.
Nell’excursus giurisprudenziale svolto era poi presa in esame la situazione nella quale e viceversa, qualora la morte sopraggiunga a distanza di un apprezzabile lasso di tempo (Cass. 21060/2016), oggetto del danno è il bene “salute”, risarcibile in termini di danno biologico terminale (trasmissibile agli eredi), ribadendosi infatti che “quel che sempre ricorre nel periodo di tempo interposto tra la lesione mortale e la morte e’ il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene “salute”)” (Cass. 22541/2017). Mentre, ove invece la persona si trovi in una condizione di lucidita’ agonica, si aggiunge, da parte della sentenza in commento, sostanzialmente quale ineludibile accessorio della devastazione biologica stricto sensu, “un peculiare danno morale che ben puo’ definirsi danno morale terminale sia di danno morale terminale (nell’eventualità che la persona rimanga cosciente e lucida fino alla fine). Distinguendosi questa ultima figura nel rilievo che assume la sofferenza psichica del soggetto che lucidamente comprenda di andare incontro alla fine” ( Cass. n. 26727/2018).
Riconoscendo inoltre, la sentenza in epigrafe, che la predetta pronunzia delle Sezioni Unite n. 15350/2015 doveva essere ulteriormente oggetto di precisazione sul punto in cui, postulando la sostanziale inutilità di uno spazio di vita “brevissimo”, esprimeva la sproporzione di qualsiasi risarcimento, non avendo quest’ultimo funzione sanzionatoria ma soltanto reintegratoria e riparatoria (ad essere preso in considerazione, si ripete, è il bene “vita” in sé stesso). E ciò in quanto riferire un danno come intrinsecamente basato sulla mancanza di utilità del relativo possibile apprezzamento, avrebbe ben potuto costituire delle criticità attinenti a possibili difformi interpretazioni dei giudici di merito nelle relative fattispecie. In altri termini, la presente sentenza ha pregevolmente, si ritiene, specificato come per lasso di tempo brevissimo possa avere rilievo anche solo qualche ora di lucida comprensione del momento da parte della sfortunata persona che sia stata investita dall’evento illecito. Ed infatti la valenza di un “lasso di tempo apprezzabile” è stata individuata proprio nella vicenda all’esame della Suprema Corte riferito al caso in cui un ciclista, dopo essere stato coinvolto in un incidente stradale, restava lucido per ca. tre ore prima di morire a causa delle lesioni subite. Nella sentenza, di accoglimento del ricorso, i Giudici della Cassazione hanno superato quelle criticità strutturali potenzialmente rinvenibili, come appena dettagliato, così appunto affermando: “queste criticità strutturali sono, tuttavia, agevolmente superabili nella fattispecie in cui la persona sia rimasta manifestamente lucida nello spatium temporis tra la lesione e la morte, dal momento che, se la sua lucidità viene manifestata, non si vede sulla base di quale fondamento possa negarsi, senza violare pure il diritto alla dignità della persona umana (art. 2 Cost.), la risarcibilità del danno non patrimoniale, che sussiste allora ineludibilmente sia sotto il profilo stricto sensu biologico sia sotto il profilo psicologico morale… La corte territoriale, dunque, ha realmente violato … l’art. 2043 c.c. nell’escludere il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dall’agonia del (omissis) – sia sotto il profilo strettamente biologico sia sotto il profilo psicologico-morale – come diritto insorto in capo a quest’ultimo quando era dotato di capacità giuridica, e pertanto trasmesso iure hereditatis alla moglie e alle figlie””.
Conclusivamente, è pertanto possibile affermare come sia stata finalmente prestata una adeguata attenzione umana, se così si può dire riferendosi ad una interpretazione di diritto resa dalla Suprema Corte di legittimità, ad una delle più complesse problematiche attinenti ai procedimenti risarcitori, ossia quelli che toccano direttamente i superiori beni della salute e della vita. Ciò, naturalmente, a patto che siano rispettate le regole probatorie sottese alla ineccepibile attuale posizione assunta dalla Cassazione in merito.